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Sulla scia di Dante |
Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura chĂŠ la diritta via era smarrita. Della cittĂ volli varcar le mura e perseguir la strada châè maestra, ma tosto mâaccorsi che lâinsicura guida facea châio deviassi a destra. Gli chiesi sommesso di raddrizzare o che sâandasse almeno a sinistra. âCon le parole non sâottien di fare,â egli mi disse parlandomi scortese, âuna mèta tu abbi ad indicare.â âCredo châio voglio a fine dâogni mese trovar quellâenergia che scaldar possa la mente e il corpo mio che ad imprese aspirano come al calcio le ossa,â dissi alla guida che ora mâosservava. âA me sembra di capire châè una scossa che tu cerchi,â sâespresse lui e si stava ritto in piedi e braccia al petto. âStramazzarti può però o tâaggrava nel tuo male e ti muori nel tuo letto.â âSon convinto: non sâavvera il testĂŠ, io mâattendo châuna scossa diletto renda me a me comâagli altri comâa te. Per principiar con amore, Beatrice conoscer vorrei. Non dimandar perchĂŠ.â âAmico, non son io una meretrice,â fĂŠ la guida che si nomina Tommaso, âtu mi paghi, è lo vero,â egli dice, âma se femmina cerchi, usa il naso, lo tuo e non quello dâaltro messere châĂ da pensar non a te, ma al suo caso.â âQuel che di Beatrice devi sapere, Tommaso mio, è châella tanto gentilâe tantâonesta pareâŚâ âCome? Parere? Se solo pare, ella non vuoi gentile e onesta come la descrivi quivi,â dice lâinterlocutor mio, scurrile. âElla pare quandâappare, non capivi? Sempre è, che paia o non appaia.â âMa dovâè âsta Beatrice? Ella è ivi o sta altrove? Eâ forse in legnaia? O in mezzo alle capre? Io voâ vedere.â âElla è qui,â dissâio, âperenne gaia, in testâa me.â E fo come tenère la cervice collâindice. Lui scoppietta come fuoco sfavillante: mantenere vuolsi serio ma risata schietta prorompe dal suo petto e glâagghigna il faccione. âIl tuo fare non rispetta il sentir mio e il mio cor digrigna,â volli sĂŹ rimproverarlo. Lui mi fece grandi scuse e mâoffrĂŹ della vigna il succo del frutto suo che fece ritornar me di buonumore e la strada riprendemmo dopo dâuna prece. Fitta assai si feâ la selva, brada, scura ed intricata. Io tenea la testa alta a cercar coglâocchi il cielo. âBada,â dâun tratto disse Tommaso: âfa festa col cervello chi rischia dâinciampare tra pericoli del suolo perchĂŠ desta è lâattenzione a luce che scompare,â e mi resse mentrâio cadevo fesso per un sasso traditore che celare si facea dallâerba alta. âFin adesso ti va bene,â poi aggiunse in ton di sfida, âchâio ti son davvero amico spesso.â âIl ciel veder volevo che mâè guida,â urlai. âSe il cielo guati troppâa lungo, Beatrice in testa ti resta e le grida tue non la faran materia, ti pungo?â domandò facendomi arrossire. âAlla dura gogna mi terrai a lungo?â chiesi con sguardo supplice dâire. âCon te vien che mi comporto amaro, tal con mio figliolo. Son le tue mire come quelle di fanciullo.ââSii caro, io tâen prego,â dissi allora a quel mio servo. âEâ pel ben che io ti voglio, châè paro a quel per mio Carletto che conservo dentro al core: è per ciò châio sĂŹ ti parlo. Le vertade châio gli narro, lui châè nervo, se le prende quale affronto. Ah, domarlo con ragione: è il pensiero dâogni padre. Sâio gli dico con affetto: impara, Carlo, a far di conto chĂŠ al mercato ladre persone incontrar potresti, lui un bacio mi regala e ricorda che sua madre, buona donna, purtroppo morta, cacio comprava e uccelletti nei negozi e imbrogliar non si facea. Lincio chi mi vuol fregar, ea dicea. Gli ozi altrui non han da diventar pesi miei. E non sapea di matematica che rozzi elementi. PerciocchĂŠ io penso: si è i martiri dei figli quando istruzione vuoi dar loro e gli dici âiâ è âiâ.â âLa moglie tua, pur senza cognizione,â volli consolarlo, âdicea cose egregie.â âEh, ma i figli ti fan sentir coglione.â E si smise di parlar di cose regie. Sâaddivenne poco appresso alla fonte dâun torrente dâacque pure fresche e ligie, che scendean forti e sicure da monte irto. Tosto abbeverai le budella mie assetate, lieto de lâarconte che tal natura creò sĂŹ bella e servizievole. Tommaso mise i pieâ a mollo e li movea nella letizia: pur senza capir, commise turbativa umana nel fluido scorrer de lâacqua de la selva: moto immise che pria non câera. Dâun colpo accorrer vidâio verso di noi un bel capriolo che stecchĂŹ a me dinanzi. Soccorrer esso non fu cosa, a moâ di punteruolo conficcato sâera in suo fianco ramo solido e fino. Non si può dir che duolo mostrò Tommaso a quella vista: âFamo tosto grande arrosto di cotal fortuna,â esclamò a veder il corpo gramo levando dal rio lâarti suoi comâuna Furia lontana da misericordia e posati essi al sol, senza veruna tema, venne e lâanimal, che ricordi, a forza di tagli dissanguò per sfamarci. Io raccolsi molti legni: sordi a gola non eravamo. Del ciel squarci io vedea dopo de la selva il nero. Alle tre piĂš non udimmo, a cibarci, trambusto di stomaci. Accorto mâero che lâacqua e il cibo fan men tetro il buio de la mente, comâanchâè vero che non di solo pan... disse uno dietro. 106 II Lo giorno se nâandava e noi si giunse nei pressi dâun molino che grandi pale avea. La straâ châivi portava assunse largo aspetto. Dâun tratto âLâassale,â sentimmo urlare da qualche parte e ci voltammo inver la vocale. Due omini vedemmo e un che parte, lancia in resta, alla presa del molino: cavalcaa come fosse un di Marte. Segaligno e con un becco, il divino ei parea voler sfidare: âChe tu fai?â gli dissâio ma lui era in suo destino. La sua lancia nella pala entrò presto, e un fracasso se nâavvenne: che lo cavalier fu sbalzato e restò pesto sulla terra a dolorarsi. âChi melo dice châio sogno?â mâassillò Tommaso. âCodesta è realtĂ , iâ ancor mi gelo, ma il padron mio Chisciotte evaso è da ragione e tali cose face, perdonate, convien non farci caso,â fĂŠ lo scudier nel mentre noi si tace sorpresi e lesto ci sorpassa a soccorrer su sua soma il padron suo che piace a quelli strambi. Anco noi accorrer dovemmo, chĂŠ il cavalier stentava a rassettarsi e le braccia sua correr facea nellâaere e li pugni mostrava a minacciar il molino e gli annessi. âGigante e drago,â viro gli gridava, âconosciuto ancor non hai li possessi di Chisciotte. Padron son de la romanza e mâavvalgo dâogni arma châio lessi. Tu sei grosso: è da ciò che trai baldanza, ma i miei amici, sta sicuro, presto mi suggeriranno qual sarĂ danza che tu ballerai, qualâesca mio pasto ti renderĂ ; dei saper châio son affine alla perseveranza: se son rimasto semprâin vita, è per essa, che fine mai ha. Mâè amico pur lâardimento, châagisce me tramite per il fine suo, ragion per cui bollo e fermento dinanzi allâingiustizia dellâesser tuo. Io son hidalgo e cotal mi sento nobile e nobil dâanimo; or tu, o gigante, inchinati a mia persona châanzi ti sfidò e noi sarem un duo, chĂŠ nobiltĂ dimostra chi perdona al pari di chi perdonare si face, scendi orsĂš a mio livello, sprona te dâumiltĂ convinta, poichĂŠ spiace chi sâammanta di grandezza inane; lascia che sâinfiammino come brace le membra tue quandâio le rendo sane appoggiandoti esta spada su spalla sĂŹ châio fò di te un pari a me, fa ne la mente pensiero a ciò, châio non falla.â Detto questo, il cavalier il capo chinò e curare si fece dalla provvida mano di scudier. Daccapo volea ricominciare con lancia contrâil molino, a veder che sciapo era il desĂŹo dâesso dâabbassar la faccia. Ma noi lo si trattiene e lo scudier, saggio per due, fa sĂŹ che il si taccia declamando lâamor che il cavalier nutre per Dulcinea del Toboso, donna di lignaggio alto e fier. âEsistâella?â chieâ Tommaso sospettoso: truce lo guato e lui distoglie lâocchi. Intanto sâera lâossesso a riposo collocato: âIn attesa che scocchi, al risveglio, di nuova avventura il desiderio. Certo è che di tocchi siffatti lor signori mai in natura ebbero modo dâosservare. Sancio io sono e lui è don Chisciotte, pura creatura, signore de la Mancia.â CosĂŹ disse lâuomo sollevandosi dal padrone disteso e la pancia davver prominente ponendosi fra sĂŠ e noi. Iâ e TommĂ câinchinammo a presentarci e dimande gli posi, e col sole noi pure tramontammo da nostre celesti certezze, scossi nellâanimo da quanto ascoltammo. Nel mentre che Sancio parlava, mossi câeravam, io e chi mâaccompagnava, per assemblar legna e fogliâe sassi, onde far fuoco sĂŹ che si cenava. âDulcinea è contadina,â Sancio disse, âma a lui nobildonna ella sembrava.â âCome il molino gli parea chi Ulisse chiamò Nessuno,â intervenne Tommaso e resti cosse di capriol che visse. Lâaroma de la carne presto al naso giunse del cavalier châera dormiente e lui si svegliò: âComâè che sto raso?â domandò a Sancio in pieâ sâergente. Poi rintronato venne al fuoco e tetro dallâalto tutti squadrandoci veemente esclamò: âChi sono, al desco nostro seduti, esti umani?â Sancio feâ nomi mio e di Tommaso al cavalier. Dâestro poetico preso, il câinformò che âDomi mai saremo a crudezza del mondo, io e Sancio e Ronzinante, comâi servi de la gleba che stan in fondo.â Quindi sâassise a noi accanto e carne dimandò per sue necessitĂ . âGrondo di stima,â dissâio, âe di cibo farne uso miglior non si puote che darlo a compagni par te e Sancio, eterne figure di cui pensier si serve.â E passarlo personalmente a lui volli un pezzo di capriolo arrosto. âTu pari qual Carlo,â si volse allor a me Tommaso, âe grezzo mi sento a dir ciò: tu grondi di stima, ma io grondo di sudore, chĂŠ mezzo capriolo è giĂ finito e non per rima dobbiam cercar di che altro cibarci.â âVien âcompagniâ da âcum panisâ, prima latino e che vuol significarci che obbligo è a dividere il pane.â âBen mi sta,â Tommaso feâ âson marci i dicitori contrari, ma grane il nobil nostro ci procura chĂŠ pure un tal Ronzinante vuol che rimane indomo e con carne nostra di cure vorrĂ fornire.â Ma prese Sancio a sostenere ilare, che âDi vegetali misture solo nutresi il Ronzin del cavaliere.â A sentir, tosto sâalzò il Chisciotte: âVien Sancio,â ordinò rosso in viso, âchâavere a mangiare la robba dâaltri la notte nella mente apporta. Patiam piuttosto, sa di sale lo pane altrui: a dotte persone sentii dir.â âTâen prego tosto,â dissi in pieâ, âresta,cavalier nostro, chĂŠ mio sento su salâe pane il composto e Tommaso per pena lo fo Silvestro.â 186 III âSignor mio,â scattò Silvestro, âconservar voglio il nome châappartiene al core di miei parenti che sĂŹ soglion mâappellar.â âGiustizia mosse il mio alto fattore,â iâ risposi, âchĂŠ dar segno immediato devo allâospite illustre: si more chi cavalleria non rispetta e nato al suo posto è omo di dolce stil novo.â âPur che Silvestro mâhai rigenerato tu dolce non mi verrai, nĂŠ ci provo.â âOr taci, Silvestro, chĂŠ il cavalier parlar vole.â âSignificante trovo che al cenno mio Sancio, lo scudier non sollevò da nuda terra il dietro: è per tanto châintraprendo il sentier di tolleranza e perdono Silvestro tenendo per buona tua punizione; or consenti che mâallontani e lâastro lunare osservi da solo in funzione de la stima châio nutro pel mistero del creato tutto che mai si fa finzione.â Andato che fu Chisciotte, io mâero seduto in terra, da Silvestro emulato e in me sentĂŹa tristezza, invero. âMangiate, amici miei,â esortò spigliato Sancio e del pane, tratto da suo sacco, ci porse con allegria e scarmigliato. âChe vi prende?â aggiunse poi, âche fiacco vedo il color vostro. Non fatevi intristir dal padron mio amato che dâacciacco suo non vorrebbe chicchessia investir. La giustizia châegli agogna e cerca giammai potremo su terra avvertir che sâabbia, seppur è bella ricerca.â âTu parli come Tommaso,â allora dissi. âSon contento che dalla forca mâhai liberato e ripreso hai or ora a chiamarmi con il nome châè mio.â âOh Silvestro, causa persa tu perora, poichĂŠ a Tommaso DâAquino pio mi riferivo châè gran filosofo, di quei che pensan come piace a Dio.â âChe dicea costui, dicci, châio se so fo?â âLâAquinate ritien che se io bramo Dio o la giustizia, talâamor lo fo vero anche soltanto se tramo di percorrere la strada che portâa Loro, pur sapendo che non possiamo in terra far sĂŹ che tal mĂŠta sia scorta.â âDon Chisciotte invĂŠ, a ciò non sâadegua,â riprese a parlar Sancio, âvita morta chiama lâesister di colui che tregua offre a chi sâavversa a vero senza giustificazion altra che si segua il vantaggio proprio e non lâessenza.â Dimandò allor scettico Silvestro: âCosa câentra il molino con lâessenza?â âNon sempre io capisco, son maldestro, il modo di veder del cavaliere, quello châio posso dire è che mâaddestro a capirne dâintelletto il volere. Or sentite la storia che racconto: sâandava noi due per il sentiere quando gli parve di veder affronto a lâidea dâomo libero châegli stima; in catene eran persone e lui pronto si fa per salvar costoro e mima ver duello con chi pon coercizione, sol che li veri banditi, che cima, eran glâincatenati, a intenzione di guardie condotti, e il scioglie lestofanti rei e sfidâa tenzone chi per suo travaglio in lui incoglie.â Fu allora che vedemmo tornare Chisciotte il quale noi lieti accoglie; mentrâil siede noto baluginare su volto suo luce di fuoco che a spegnersi va: piacer non puote dare sua grevâespressionâe lâamaro che a noi si trasmette dalle sue pupille quando le move perdute o che a cielo dirige a cercar faville dâun dio terren che lâaiuti in sua lotta e lui affermi che son piĂš di mille coloro che combattono la rotta sbagliata che lâumano Ă intrapresa. Spande lacrime asciutte, lai sbotta che nessun ode, singulto dâintesa tien con la notte che il dĂŹ si piange. Tra parole e silenzi lâalba attesa alfin giunse, dirò senzâaltre frange. E noi si riprese nostro cammino, di quei vivi che stanchezza nol tange, chi a pieâ chi a caval di Ronzino chi sulla groppa dâutile asinello per fame dâattraversar dâUnetrino fantasia che realtĂ si fece nello svolgere dâuna sola settimana. Un gregge di pecore il cui vello lor pastori tiravan per far lana un poâ appresso a noi sbarrò la strada e lâira del cavalier si feâ frana: âAnimali ovini e umani, vâaggrada dunque di separar la via futura di noi nobili viandanti cui bada il voler divino e che natura apprezza da lo percorso passato? Come osate voi por siffatta cura a fermar chi è strumento del fato? Tosto allor si mova, pria che mia lancia sâabbatta su scellerati che prato fan loro, al Signor della Mancia impedendo ed agli amici suoi di transitare nel modo che lâancia fa passar il fiato che in suono puoi udir poi trasformato: sâobbedisca se saggiamente non si vol châio scuoi ruminanti e parlanti e sol lisca dâessi rimanga al fin di testimonio dâunâesistenza nata acchĂŠ fallisca.â âMatto è costui?â dimandò un pastore a me rivolto nel mentre Ronzino avea preso a scalciar nervoso fore di controllo per via del gran casino, costringendo Chisciotte a prodigarsi per portar chi portava il suo bacino. âIl cavalier che noi onora parsi strambo ad occhi oscuri perchĂŠ lâingiusto teme e sovvertir vuole a indignarsi.â âLa carne di nostre pecore gusto dâomini fa felice come lattâe formaggio e quantâaltro: dovâè lâingiusto del qual favelli? Come tu ribatte?â âAmico, nella sostanza sâimpiglia il ragionare. Son però esatte lâinterrogazioni su giustizia châil piglia.â 246 IV Come persona châè per forza desta io mi riscossi lo giorno seguente a sentir tuono che rompea la testa. Presto corremmo lontan da torrente dove la notte avevamo trascorsa per tema che lâacque, châamico sente chiare fresche e dolci, presa rincorsa, mostrassero lâimpeto châè pur loro allorchĂŠ quelle di cielo, percorsa lâaere, sâabbraccian a lâaltrâe coro insieme fan châinonda ognidove. Grotta videmmo che sembrava foro indentro la roccia, fatto se piove per riparare, e lĂŹ ci ficcammo giustâin tempo ondâevitar che altrove noi si restasse e diluvio scampammo. Il coperto ci fè allegri tutti, pur lâanimali e insiem cantammo lodi al creato ed aâ suoi belli frutti nel mentre le gocce cadean fitte allâesterno e assorbivan luce. Quandâecco una voce udimmo: âBitte, io son mago di Germania e in fondâa grotta sto: so che siete genti invitte.â Ci voltammo lesti in direzion dâonda sonora e dallâoscuro grosso vennâe alto omo vecchiardo che di monda veste bianca vestia e Sancio svennâe cadde per cuâio stava a lui andando ma braccio di mago lontan mi tennâe sua voce tonante a me parlando rivolse: âNon ti curar di sincòpe, poichĂŠ io so châil si va rianimando; altra è tua missione: dentro lâEurope intière tu dèÏ equilibrar li matti facendâuso di mezzi tutti e rope che lâartâe resto e li strani fatti metteranno alla tua disposizione.â âPope, giĂ mâhanno sfinito tuoi pattiâ il dissi âche son forieri dâazione lunga e rigorosa pur se lusingan mie cervella disposte a tensione di questa natura; ma che non fingan mie virtĂš: mâobbligano esse a dire che per tal impresa occorre che cingan la spada de lâintelletto lâardire e la misura non dâuno soltanto ma di gente dâora e de lâavvenire, chĂŠ far da solo neanche un santo puote e per darti a capir quantâè dura è come sâio ti dicessi: intanto châequilibro li matti nostri, cura tu dâandar in Cina alla veneranda etĂ che hai raggiunto e châè matura.â âSancio è morto e saluti vi manda,â sentii allor dire a Silvestro chino su corpo di scudiero e che sbanda, quasi cade, mentre sâalza e di vino corre a imbeversi il gargarozzo finchĂŠ fiasco ne contiene, fino a colmar di spirto il vuoto mozzo che morte lascia in alma di vivo. âEi non dovea morire in sĂŹ tozzo modo e lontan da suo vero arrivo,â disse mago irato mentre Chisciotte inginocchiatosi ponea su schivo viso la mano sua e gli diè notte abbassandogli palpebrâe clamando: âSancio, amico e custode, di lotte mie ti meravigliasti fin a quando comprension di me cielo ti offerse. Allâistessa maniera io comando creato acchĂŠ comâè châio ti perse mi renda dotto. Non è abbastanza dir per sincope o dâaltro: châio sappia la causa ultima, qual sostanza in te marcĂŹ prima e di veleno inondò âl tuo corpo e la prestanza da esso fece che venisse meno. In questa grotta fuor da tuo paese in mentre che diluvio senza freno sâabbatteva su campagna cortese tu te nâandasti solo e dâimprovviso e raggiungesti lâantenate imprese. Con chi di Dulcinea dirò? Viso suo chi mi descriverĂ in presenza come tu facei? Asinello châè piso non sentirĂ egli assurdâassenza? A questi nuovi amici, sta sicuro, di te parlerò e vedrai châessenza tua si tramanderĂ dentro futuro.â Ciò detto il cavalier si sollevò e uscĂŹ da grotta e sâimmerse puro in diluvio e noi videmmo che levò braccia e capo e Cristo di spalle parve. Silvestro lacrime da sacca prelevò senza cessa e in quantitĂ e scomparve in parte buia di grotta e lai emise. Il mago benedĂŹ e disse: âLarve tua carne mangeranno presto, lise saranno tue indumenta, nessuno però nessun mai, lâanimaâŚâ e rise. Poi venne a me e dimandò se uno come lui potea prender posto di Sancio e partir con noi in cerca dellâUno. âA trovar la retta via iâ mi lancio e Silvestro mâè guida, di ragione pare châabbisogna piĂš che del rancio lâamico cavaliere ed è questione che tal fini nostri ben conciliansi nellâUno tuo e che noi amiamo al par di quelli che dâamor saziansi,â risposi a mago e poi con Silvestro lĂŹ vegliammo come morti vegliansi. Dalla grotta sotto un pino silvestro si vedea Chisciotte châera accucciato incurante di pioggia e per capestro sembrava ei pronto, addolorato oltremodo per morte di scudiero. Fulmine lâilluminò che levato dito a cielo e sguardo, Dio davvero volea tacciare di sua mestizia. E Signore lâudĂŹ come chi cero in chiesa pone per chieder giustizia. E venne sequela di tuonâe suoni e lampi fatti da Chi tien perizia per cui tra le stupite acclamazioni nostre sâebbe a compiere miracolo e Sancio si svegliò da perdizioni. E sfregati lâocchi disse: âCavolo, che bella dormita châi mi son fatta, e voi perchĂŠ come attornâa tavolo state intorno a me? Comâa chi si schiatta.â Di gioia esultò Silvestro e baci gli dava e abbracci e sulla tratta di Chisciotte poi si mise. âOr taci,â dissâio contento, âchĂŠ noi ti si credea da sincope stroncato e cor in paci.â âChe si rianimava io cosĂŹ dicea,â parlò il mago felice e sbalordiva Sancio a saper che morto lo si facea. Ed ecco tornar Silveâ cui seguiva fradicio cavalier che suscitato afferrò e fè sollevare e viva espressione riapparvegli e beato dipoi si quietò e solido disse: âAmico, sorprese che fa il fato son impossibili a sapersi: visse chi more, il resto è fanfaluca.â âPer festa e per rima,â io pure disse âoccor che Silvestro si faccia Luca.â 17 V âLuca o Silvestro, per me pari sono,â sâoffese Luca, âe chi cosĂŹ vuolsi io non dimando per non farti dono.â E, pioggia cessata, in tutti colsi desiderio di riprender cammino. Ultimi dubbi a mago di nord iâtolsi, che câaccusava di non parlar latino, al dirgli che si voleva far lode in lingua nova al Signor Unetrino. âGrotta che mâaccogliesti, odi lâode châio ti fo dopo lustri e decenni: custodisti mia solitudine da mode fugaci consentendo che perenni meditate preghiere sâinstillassero in mente e cor miei siccome cenni che per tramite dâanima venissero da Lui diretti al fin che lâincontro. Grotta che mâaccogliesti, tal passero solitario e derelitto châĂ contro lo tosto inverno che tutte stagioni pervade allorquando si fa scontro col voler di Dio e mâinfondesti ragioni: âamor, châal cor gentil ratto sâapprendeâ âamor, châa nullo amato amar perdonaâ grotta che mâaccogliesti, si comprende il desio dellâanima che dâun lato al dovere di lasciarti sâarrende inquantocchĂŠ capĂŹ senso châAmato âl cerca pure nellâAfrica fonda e infra lâamici novi châĂ mandato, dâaltro lato restar sulla tua onda vorrebbe che sĂŹ in alto lâha porto. Grotta che mâaccogliesti, amor diffonda.â Questo pregò il gran mago assorto ma Luca repente dir volle la sua: âIn Africa iânon vegno châè corto il fiato in tal calura e il sole tua pelle nera fa diventare e nessuno ti riconosce quando qui si fa prua.â âO Luca che sĂŹ ti chiamò alcuno invĂŠ che Tommaso comâè giusto sia, nel far cammino iâ ti conto di veruno. Dei saper che erba di farmacia fu scoperta oltre lâoceani bagni e ad essa diĂŠ nome Levis Cia lo âmperator di tali lochi stagni per onorar san Luigi e Ciacco dellâAnguillara poeta fra i magni. Tal erba, Sancio tâassicura, smacco da a chi ti pensa male e danno face, ti basta che lâassumi, pofferbacco.â âIâ non vuol far male a Luca, pace voglio, comâanche Chisciotte tuo padrone, e tu sobilla mia guida verace a qual fine io non so e gli daâ sprone,â intervenni contrariato, chĂŠ poeta Ă da pensar a lâuniversal questione e non mai a due servi di cui Ă pieta. âE allor Tommaso rinomar devi lâamico mio che sol cosĂŹ sâallieta.â âPur che tu seâ resuscitato âdeviâ non puoi dir a chi salaria Luca,â intervenne cavalier, âchâio mi levi in difesa dâospite e vero duca si necesse, causa tua sciocca richiesta.â âFate zilenzio,â fè allor a miâ nuca lo mago di Germania, âhodie si festa Tommaso lâapostolo e per ciò motivo iâ mâappello acchĂŠ Luca sâarresta e torni Tommaso per spirto votivo.â Al declinar di giornata, locanda videmmo in su la via e sentivo appetito grande comâaltra banda. Ci rifocillammo di carnagione e infin satolli, prima di branda, iâ diĂŠ parola a lâuniversal questione: âEssere o non essere,â declamai ispirato da beata libagione. âNon è questo il problema piĂš ormai chĂŠ noi giĂ siamo e non vâè niuna scelta.â intervenne Chisciotte e duro âl guatai. âPer poeta è lâessenza prescelta cosa? Il nostro cavalier châassaleâŚâ io stava argomentando ma la svelta lingua di mago introdusse strale e non mi lasciò terminar concetto: âNon è tempo di question campale. E luogo nemmeno: pranzo diletto non sâaddice allâesserenonessere, teschio piuttosto, dolore, sospetto.â âSe nol dico io, altro poeta dâessere dirĂ â conclusi indispettito assai addentando coscia di carni tenere. âIâ pure son convinto, châora pensai che dâessere e questione ho orecchiato innanzi, ma in modo sĂŹ fine mai,â disse cavaliere verâme voltato. âComunque,â parlai pria di deglutire, âche vuoi significar, o mago? Grato ti sarò se spiegar mi vorrai dâire tue ragione, chĂŠ a coniugar verbo âessereâ poeta dâogni tempo mire. Iâ non credo châa dir tempo acerbo il nostro per mio poetar tu abbiâa riferirti a pranzo: tal senso serbo.â âCon onestĂ tâho da spiegar che rabbia tua un fondamento habe, seppure io non dissi âacerboâ poichĂŠ gabbia son luogo e tempo per le menti dure. In esto momento iâ penso, al pari di Chisciotte, e profittando di pure gioie di pasto e compagnia, che Lari vuole che noi sâè per fatto dâessere.â âOr tu pensa lecito mio dialogari? Questo vogliamo sapere: sâessere o non essere io sono libero di dimandarmi. O debbo cedere?â âLibero tu seâ per nulla, chĂŠ lâebbero fatto tuoi genitori vero inguaio perchĂŠ quando tu non eri tâavrebbero dovuto dimandare: vuoâ tu Caio essere? E se tu âl dicevi che no, non sâavevano ad alzare il saio.â âIâ mi pento nel mio petto: te no, Tommaso, io non dovea contentarti, dovea lasciarti nome altro, se no tâesalti e non câè facile domarti.â âTu può domar cavalli o Beatrice tua, se pure riesci ad accasarti.â âSuvvia, compagni di desco, felice renderete tavolata e mia panza, chĂŠ Sancio Panza si cognoma, si ce lasciate digerire in pace e sanza guerra prelibatezze dâostessa.â âSottoposti, calmate vostra danza, vâingiunge cavaliere, che è fessa.â âIo pensa châho sbagliato la valuta dâanime esta sera, abituarmi a ressa io devo dopo grotta: qui si sputa sofferenza, è questa la vertade, ma esserononessere, iânon muta, per tempo e per luogo qui non cade.â 57 VI Al tornar de la mente, sulla branda me ne stetti a meditar finchĂŠ mago da giaciglio accanto fĂŠ scorribanda: âA veder lo ânferno iâ sarei pago.â âTu vuoâ cercar lâUno laddove non câè?â dimandai stupito da cotal imago. âTu pecchi di logicaâ il disse âCâè se cosa è. Sua voglia fè lâessenze.â âMa scusaâ volli dir âquando error câè io oggetto getto e di suâessenze non mâoccupo e piĂš non mâappartiene.â âSon sua proprietĂ tutte create essenze.â âMa se son sue, perchĂŠ error mantiene e nol corregge, perchĂŠ male resta?â âPerchĂŠ lo male fa ântravveder lo bene.â Sensazione di fame in me si desta dâun tratto e ragion di mago mi sovviene chĂŠ pagnotta saria gradita festa per mio stomaco al par che bene dopo il male. Ma poi feci mente che se pagnotta manca mal si tiene lâaffamato assai e ferocemente. Mi distrasse porta che sâaprâe sbatte: Tom comparve con pane eccellente e a tuttâil distribuĂŹ con latte. Cammino di ricerca riprendemmo attraverso querceto pien di blatte. Iâera orripilato chĂŠ mai videmmo sĂŹ tante di schifezze ambulanti. âNoi siam schifiltosi ma ci pascemmo par loro dâumori materni santi,â disse Sancio con saggezza nel mentre ne schiacciavâa bizzeffe e suon di franti scheletri mi facea rivoltar ventre. âChâogni scarafaggio piace a suâ mamma, se questo vai dicendo, tu fai centrâe son certo,â Tomma intervenne, âdramma non è. Non è vera, mago, âsta cosa?â âMente mia, pur che non vuoi, tu infiamma, chĂŠ io tâho da dir in versi e prosa che non si dee insiem menzionare blattâe mamma, meglio è mammâe rosa.â âPer tempo e per luogo?â volli commentare. Sortimmo infin da querceto infesto e ci accompagnammo nellâandare ad acque di ruscelletto châinnesto poi fa in rio piĂš ampio e turbinante. Allâombra dâun pino demmo arresto al fin dâabbeverar noi e Ronzinante e asinello. Nel mentre Chisciotte, con mano su cavallo, contemplante si mostra di paesaggio e di grotte io parla con mago, Tommaso e Sancio con rami spuntati tra pesci a frotte sâimmergono e pugnano per rancio. âIn ultimi dieci anni,â mago dicea, âsolitudine mi fece acconcio a meditar su eucaristia châè dea de li cristiani. Iâ mâaddimandavo come si concilia in chi si bea dopo confessione il desio bravo de lâostia con certezza châei ricader dovrĂ in tentazione che nâè schiavo.â âE scaturĂŹ in tal tempo tuo parere da siffatta questione o sta sospesa?â âArdua e una soluzione potere trovar potè e son qui a mò di resa.â âNon mâè facile comprender tuo dire, mago,â mâespressi con chiara pretesa. Sâavvicinò Chisciotte a sentire tono di conversazione e mago mano il prese e la mia e zittire ci fè con sibilo sommesso ma drago mi parve per tension che fu creata, e fiamme e non fiato châal par dâago pungean superficie ed essa passata entravanâ profondo uscir videtti da sua bocca: âDevâesser accettata lâumana natura da spirti schietti: châè pur debole carnâe mai perfetta. E iâ son qui omo tra omini, eletti di lassĂš al fin dâessenza imperfetta e che possa lodar la creazione che mercè di carne iâvedo perfetta.â Su brace ardemmo, per soddisfazione di stomaco, parte de lo pescato. Nel mentre si mangiava, un cafone collâaratro e bue viene educato verso di noi e caffè ci domanda. âNoi non abbiamo il da te cercato, sol panâe pescâe acqua per bevanda,â il dissâio e Chisciotte aggiunse: âIâ conosco tal frutto che comanda sveltezza e rende prodi pur chi smunse dâenergia la materna natura. Chi sei tu che detta sostanza assunse?â âOsvaldo mi chiamo e quivi dura mio esilio dacchĂŠ mi fu accusa che loâmperator uccisi: è dura.â âQuale âmperatorâ iâchiesi âtu usa?â ma mago intervennâ e cafon scosse: âNon ti curar di noi, ma prendi e scusaâ e pan in bocca gli porse e lo mosse. âIo vò sentir,â dissi âlâhistoria tutta.â Ma fu allora che terra si smosse e piĂš non finĂŹa e larga e brutta sâaperse fossa e profonda e si corse noâin ogni direzion che Dio butta. Paesaggio mutò alfin e iâmorse di paura e lâaltri pure e burrone laddove stava ruscelletto sorse. Poi tutta si quietò lâinsurrezione di celeste mano châi contraddico e per timor non dico. In azione Osvaldo morĂŹ e non disse nemico. 147 VII âQuestâè Satan, questâè Satan, Chisciotte,â urlò cavalier a fin di terremoto, âel diablo solo puote far a botte con la terra madre da suâ remoto regno e spaccarla e dividerla.â Ci sedemmo a rimirar lâimmoto che moto segue e comâuna perla châè cancro dâostrica iâ poetai: âQuiete dopo tempesta: ah, vederla.â Tommaso sâoccupò dâOsvaldo guai : pietra colpito lâavea su testa e fracassata e âl cervello ormai sporgeva siccome materia mesta e inerte e âl nulla emanava dâesso, piĂš mai desio vi resta, non gioia o bellezza, solo bava bianca e rossastra che fazzoletto di mia guida coprĂŹ per pietĂ brava. Mago pregò assorto e su petto di morto croce tracciò colla mano. Sancio e io e cavalier al cospetto pure stavamo, in piè, de lâinano. Occhio mi cadde sopra pergamena di tasca dâOsvaldo sortita e strano la presi ed ivi lessi de la pena de lo âmperator Giovanni e poi di Roberto principe e de la scena. Era Giovanni, ed i fratelli suoi principi, di spirto pugnacâe fiero. Li nobili de lo reame tutto, coi vassalli loro, cedettero lâintero dominio e potere a la sua famiglia, vecchi o nuovi châeran de lâimpero. Tranne un barbuto Cid che piglia e sâasserragliâe si ribella colli amici comuni (âsti tipi) a miglia poche da florida sua terra, folli tipi, intrâisola avana che ruba a utile servo de lo grandâimpero. Tosto Giovanni a guerra con tuba move li mulatti, ma ciò non basta. E deve pur contener quei cuâ âbah!â detto non servâa spaventar, chĂŠ casta si senton e di lignaggio e chiamano âma fĂŹa,â ossia figlia mia, la pasta venefica dove tengon lâuna mano e lâaltra; e lâaiuta frate Roberto. Lo quale a giustizia tiene e vano è tentar di render meno sofferto suo percorso di vita collâinduzion a ragionar maschio comâè certo cosciente chi bene sape che lâazion violenta è fonte unica di gioia e sicurtĂ nel nostro mondo dâelezion. Pur che li sudditi, per dĂŹ di noia, bionda donzella a lo âmperatore donano, ella non gli calma foia e Giovanni sâinguerra a tutte lâore in conflitti or giusti, or non giusti, pur dâeliminar lâassai testosterone. Ma tutti âl rispettano per suoi gusti sani e chi lâammazza, dalla sera alla mattina appresso sâangusti per tutta vita, sĂŹ spero sâavvera. Donna Lina, di Giovanni consorte, con lui galoppava mattina châera destino âmperator non vedesse notte. Sâera la corte spostata nel contado al fin di riscuotere gabellâe morte sovvenne per saetta che in grado fu di perforar tempie di Giovanni e sua materia di pensiero si fè brado cibo dâanimali bradi e li danni non furon rimediabili chĂŠ Giovanni caddâe morse senzâaltri affanni, ma dovea campar ancor degli anni, se balestra la vita di Giovanni stroncata non avesse co lâinganni. Ulivo indicò cafone e panni dâOsvaldo e, papiro conta: âiâ cado dâalbero, ove a mò di barbagianni mâera appollaiato, su prato rado e tutti a dir: âlâuccisoreâ e botte piglio e lâesilio e ramingo vado. Ma non fuâio lâarbitro de la sorte de lo âmperator, chĂŠ dâaltro ulivo partĂŹ saetta che dĂŹ gli fece notte.â |